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L'autostima

vorrei bere almeno un caffè.

BI Como
Postato il: 08/06/17
Tempo di lettura: 3 minuti, 24 secondi


Molte volte mi ero chiesto perché dovevo imparare questo benedetto inglese.

Me lo sono chiesto anche quando, due mesi fa, dovevo andare a Londra con dei colleghi per degli incontri di lavoro.

E sono iniziate le rogne.
Guardavo con invidia quel mio collega che interagiva, che suscitava approvazione, che mieteva consensi (anche con le colleghe donne!). Ma come, mi sono detto, in ufficio è un morto di sonno e guardalo lì che fa il brillantone...
E un pochino di ansia mi ha assalito. Perché temevo che fosse solo la punta dell'iceberg e in effetti lo tsunami linguistico stava per abbattersi su questo povero ignorante e contadino quale sono.

Anni a studiare architettura, una dignità nel mio lavoro che pensavo fosse assoluta.

Tanti progetti realizzati, tante soddisfazioni. Ma lì, in quello specifico momento, mi sono sentito fuori luogo.
E il malessere era amplificato dal fatto che stavano parlando di cose che conoscevo a menadito! Del mio pane quotidiano. Ma più che annuire e comunque non capire la maggior parte delle cose che dicevano non riuscivo a fare.

Me ne sono andato, con una scusa.

Forse una sigaretta, che avevo smesso di fumare, ma ho ricominciato dal nervoso in quel momento, mi avrebbe calmato un po'.
Ma sapevo che non era finita.
Passeggiando per le grandi vie del centro londinese, invaso da italiani all'inverosimile, un po' trovavo conforto nel sentire il mio beneamato e familiare idioma... Ma dopo la sigaretta ci sta sempre un buon caffè e scopri che una cosa che è così semplice da ordinare in un bar da noi, da LORO diventa una chimera: mi propongono quattro/cinque tipi di caffè diversi (credo) e mi rassegno alla fine indicando col ditino quello di un compagno di coda davanti a me che aveva appena ritirato il suo.
 
Torno in ufficio e la mia deriva linguistica viene annientata dallo sconforto quando non trovo più i miei colleghi (erano andati anche loro a bere un caffè) e devo cercarli. E la mia unica soluzione è sciorinare il pezzo forte, la mia personale interpretazione del " noio volevam savuar" di maccheronica memoria. Senza, tra l'altro, risultati significativi, perché il mio amico nessuno lo conosceva (preferisco dare, per dignità personale, questa risposta alle mie, presumo, incomprensibili domande...)

#cheffiguradimmerda, direbbe il buon Emilio Fede.                   

Li riassumerei come i tre giorni più inutili della mia vita. Sì si, ho visto Londra. Bellissima, per carità.
Con tutto l'orgoglio che può avere un uomo, al mio ritorno mi metto alla ricerca della soluzione al mio problema con l'inglese. Che ho rimandato per troppo tempo. E che per troppo tempo avevo confinato a un problema linguistico; cioè quando mi servirà, farò un corso.
 
Ecco, ho scoperto dove sbagliavo: partivo da un presupposto riduttivo. Perché il problema non è quello del corso di inglese. Non so l'inglese, come non so tante altre cose. Mi sono laureato lo stesso e ho pure trovato un lavoro che mi gratifica molto.
 
Dicevo, il mio problema è la mia dignità di uomo. Incapace di comunicare, incapace di esprimere anche il più elementare bisogno primario. Non era il problema di non conoscere una lingua. Io in quel momento, in quei tre giorni ero scomparso. Inutile al mondo, in quel mondo.
 
E questa è la mia leva motivazionale più grande per la quale mi rivolgo a voi. Fatemi sentire ancora uomo, mente pulsante, che può avere un peso specifico in un mondo in cui l'inglese permea tutto, anche il più becero caffè che è pur sempre di italica storica matrice!

Ridatemi la parola.

Una voce in capitolo la voglio avere. Non cerco il corso di inglese, o almeno è solo un tramite: deve essere il mio corso di autostima personale. So progettare palazzi interi, abitati da centinaia di persone; almeno un caffè da solo vorrei potermelo permettere.
 
Grazie,
Antonio






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